Spiralis Mirabilis - Rivista dedicata alle arti marziali cinesi e alla cultura tradizionale cinese con focus su Tai Chi QiGong e DaoYin
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Spiralis Mirabilis Magazine

武術與中國文化 - Arti marziali e cultura tradizionale cinese

Tutto è uno, il Taiji e l'universo olografico

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Pagina pubblicata in data 10 agosto 2024
Aggiornata il 12 agosto 2024

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a cura del Maestro Marco Panfilo

Questo articolo è una sintesi tratta dalla tesi di approfondimento per il II° livello della scuola di formazione di 氣功 qìgōng e Metodo biospirali“ del CRT - Centro Ricerche Tai Chi di Venezia, elaborata dal maestro Marco Panfilo.

Nel 1947 il fisico ungherese Dennis Gabor mise a punto la teoria che poco meno di vent’anni dopo permetterà di sviluppare la tecnica olografica. La tecnologia del 1947 non permetteva di realizzare gli ologrammi. Solo dopo che il fisico Theodore Harold Maiman, il 16 maggio del 1960, attivò il primo laser a stato solido presso gli Hughes Research Laboratories le sue teorie poterono prendere vita.

Una scoperta che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1971. Tra le varie caratteristiche peculiari dell’olografia ve ne sono due assolutamente straordinarie. La prima riguarda il fatto che, se prendiamo una normale fotografia e la tagliamo a metà, ognuna di queste conterrà il 50% delle informazioni contenute dall’intero; praticando la stessa divisione su una pellicola olografica, invece, avremo due porzioni che mantengono le stesse identiche informazioni senza alcuna perdita di dati o di qualità.

Questo processo divisorio può essere praticato più e più volte senza che vi sia una diminuzione di elementi informativi e che l’immagine olografica possa per questo risultare compromessa. Solo nel momento in cui la pellicola olografica è ridotta a frammenti minuscoli, l’immagine può risultare offuscata.

La seconda caratteristica che contraddistingue l’olografia dalla fotografia è che la pellicola fotografica può contenere un numero enorme di informazioni a seconda dell’angolazione con cui viene attraversata dai fasci luminosi che imprimono le frange di interferenza.

Le frange di interferenza sono un fenomeno ottico che si verifica quando due onde luminose si sovrappongono e si combinano, creando una serie di bande, chiamate frange, luminose e scure. [...]

Alcuni ricercatori si sono dilettati nel calcolare, in una pellicola olografica grande quanto un pollice quante informazioni siano archiviabili. La risposta è stata sorprendente. Tante quanto ve ne sono in 50 bibbie.

Si dice pertanto che un sistema olografico è "nonlocale" in quanto l’informazione, qualunque natura essa abbia, non è contenuta in una singola parte o in un punto ma pervade omogeneamente la pellicola olografica. [...]

Il nostro sistema cognitivo si presenta in tutto e per tutto come una pellicola olografica, in quanto le nostre esperienze quotidiane, emotive, fisiche, mnemoniche e così via, vengono costantemente archiviate nel nostro cervello creando il bagaglio esperienziale che ci accompagna.

Tramite le capacità neuro-cerebrali riusciamo a proiettare gli ologrammi della nostra vita passata arricchendo le immagini tridimensionali principalmente con sensazioni ed emozioni ma anche con suoni, voci, profumi elementi che le fredde macchine non sono in grado di riprodurre. Ciò che viviamo viene registrato nel nostro sistema di memoria eppure, per svariati motivi, non tutto emerge: alcuni eventi traumatici o che potrebbero mettere a repentaglio la nostra intelaiatura psicofisica vengono congelati e nascosti. Spesso è necessario un intervento esterno (per esempio l’ipnosi) per far emergere dalle "frange di interferenza" il nostro vissuto. È come se ci servisse un proiettore e qualcuno in grado di posizionarlo nella corretta angolazione permettendo così al suo fascio luminoso di dare forma a quanto già impresso nel nostro inconscio, diversamente le informazioni rimangono cristallizzate e non rivelate.

Il modello olografico pare si possa adottare anche in psicologia laddove sembrerebbe portare una risposta convincente a quello che Jung chiama l’"inconscio collettivo": quei simboli e idee che non possono essere i prodotti di una storia personale ma che scaturiscono da una sorgente più grande comune a tutti, un livello più profondo di coscienza costituito da immagini antichissime ("archetipi"). Una bibliografia legata a numerosi esempi di sogni o sedute d’analisi riportano di esperienze, riferimenti o legami che non possono di certo essere spiegati se non accettando che la nostra "coscienza" sia una parte del tutto e viceversa [...]. Il fatto che in ognuno di noi vi sia contenuta una parte del tutto e che queste parti siano intimamente collegate e interconnesse fra loro significa che, anche se ciò non viene portato in evidenza, anche se non si rivela nel mondo esplicito, c’è un legame che tiene unite le nostre coscienze nonostante il susseguirsi delle generazioni e delle loro continue fusioni. Ci si potrebbe pertanto azzardare a dire che "la coscienza del genere umano è una sola". [...]

Una prospettiva affascinante che emerge dalla fisica quantistica è la visione olografica dell’universo. Secondo questa teoria, l’intero universo può essere considerato come un’unica entità olografica, in cui ogni parte riflette e contiene informazioni sull’intera struttura cosmica. Questo concetto suggerisce che ogni porzione dell’universo è intrinsecamente correlata al tutto, e che ogni minima parte contribuisce alla comprensione dell’intero.

L’ordine nell’universo, secondo la fisica quantistica, è fondato sul concetto di campo quantistico. Questo campo permea tutto lo spazio-tempo e costituisce il tessuto fondamentale della realtà.

Alcune interpretazioni della fisica quantistica suggeriscono l’esistenza di una coscienza universale, una sorta di campo informazionale che permea tutto l’universo e influisce sul comportamento delle particelle.

Appare, quanto meno, scontato un parallelismo tra quest’aspetto della fisica quantistica e il Daoismo. [...]

Nel 道德經 dàodéjīng, nella prima stanza, si parla di un dào che permea tutto, e che rappresenta l’essenza dell’universo. Questo dào potrebbe essere visto come un campo informazionale che collega tutte le cose.

Provare che ogni parte della pellicola olografica contiene la totalità dell’informazione apre le porte alla non-località dell’informazione stessa.

Nel volume "Tutto è uno. L’ipotesi della scienza olografica." Michael Talbot scrive: "dalla scoperta che la coscienza contiene l’intera realtà oggettiva - l’intera storia della vita biologica del pianeta, le religioni e le mitologie del mondo e le dinamiche dei globuli sanguigni e delle stelle - fino alla scoperta che anche l’universo materiale può contenere, entro la propria trama e ordito, i processi più intimi della coscienza. Tale è la natura della profonda connessione che esiste fra tutte le cose in un universo olografico."

L’universo, quindi, sarebbe come un immenso sistema olografico, come suggerito dalla ricerca internazionale "From Planck Data to Planck Era: Observational Tests of Holographic Cosmology", pubblicata su American Physical Society nel gennaio del 2017 [...].

Nel corso del tempo, sono molteplici le culture che hanno individuato con differenti parole un campo energetico che avvolge il corpo umano. Qui lo chiameremo aura.

Secondo alcune scuole di pensiero questa è costituita da vari strati differenti. [...] La letteratura yogica indiana, individua all’interno del nostro corpo materiale alcuni speciali centri energetici che, dipartendo da ghiandole endocrine e dai principali centri nervosi, si estendono anche all’aura. Il nome sanscrito "chakra" è quello maggiormente conosciuto e significa "ruota" proprio perché individua un punto che turbina vorticosamente tra l’interno e l’esterno del nostro corpo materico. Il nostro sistema energetico è distribuito in egual misura attorno al corpo e la sua forma anche: vi è una maggior concentrazione di talune informazioni su alcune parti (per esempio i nodi di agopuntura) ma, nel profondo, queste sono riscontrabili nell’ovunque del campo energetico. [...]

Nel libro del 1998 "On Creativity", David Bohm scrive: "L’immaginazione è già la creazione della forma; possiede già l’intenzione e il principio di tutti i movimenti necessari per metterla in atto."

La chiave di questo processo è l’improvvisazione spontanea nel momento. Mettere al centro dell’azione l’intenzione come elemento in grado di dare una linea precisa all’atto creativo: il flusso delle cose (che tendono a un’omotetia ciclica) iterato dalla chiara intenzione (il caos soggettivo) per determinare il nostro frattale. Perché si possa formare un’intenzione chiara è necessario raggiungere uno stato di piena consapevolezza, di non azione, il 無極 wújí, il non agire. [...] Questo significa tornare a zero, alla pura consapevolezza, e agire da lì. Quel luogo infinito e senza forma appena prima di ogni significato e forma. Il luogo da cui scaturisce la creazione. Quando ci si riconosce con il 無極 wújí si aderisce al flusso universale. Se si riesce a vivere in questo stato, la creatività accade naturalmente. Per creatività si intende il senso più ampio della parola, riferendosi a uno stato libero e spontaneo in cui la vita stessa viene creata e auto organizzata in modi nuovi e intelligenti. 無極 wújí, vuoto, è rinnovare un processo creativo continuo dove l’omotetia e il caso convivono in un continuo equilibrio disequilibrato che crea tutte le forme viventi. La scienza newtoniana ha sempre basato le sue fondamenta sul principio di causalità ma questa è diventata una realtà assiomatica tanto da non considerare la reale evoluzione della natura: "Se lasciamo che la natura faccia da sé, vediamo un quadro ben differente: ogni processo subisce interferenze parziali o totali a opera del caso, e in misura tale che in circostanze naturali un corso di eventi che si conformi in tutto e per tutto a leggi specifiche simboleggiato dal cerchio vuoto, e 太極 tàijí, la vita, è simboleggiato dal 太極圖 tàijítú.

Lo sviluppo della forma del 太極拳 tàijí quán nella storia ha comportato un florilegio non solo di stili ma anche di scuole diverse che, grazie alle interpretazioni dei maestri che si son susseguiti, hanno dato vita a un corpus assai imponente di quest’antica arte marziale cinese.

La forma lunga yáng si è prestata e distinta per le elaborazioni più svariate. Questa conta di 108 figure (tecniche) che, principalmente per praticità didattica, sono suddivise in quattro brani, . I movimenti di quest’arte sono contraddistinti dalla ricerca costante di morbidezza, fluidità e lentezza. Ciò dovrebbe condurre lo stato d’animo del praticante a un livello quanto più possibile calmo e rilassato e indurlo a far sì che la mente e il corpo possano fondersi in un unico atto alla ricerca di un benessere generalizzato sia sul piano psichico che corporeo.

Questa enunciazione, però, sembra essere estrapolata da un volantino o dall’incipit di un sito internet che ne pubblicizza la pratica. E ci si potrebbe anche accontentare in quanto nella società occidentale dei nostri giorni vi è un tale scollamento fra le parti che compongono il nostro io tale da necessitare di un elemento di connessione in grado di ridare consapevolezza del proprio sé.

La tecnica e la forma richiedono il raggiungimento di determinati standard che possono essere conseguiti, anche se a volte con notevole fatica e sacrificio, da molti. Vi è qualcosa di più profondo, però, laddove un praticante esperto non si accontenta di aver saputo guadagnarsi appieno quanto sopra "pubblicizzato" e sente il desiderio di andare oltre i formalismi. La ricerca e il raggiungimento di un notevole risultato estetico/atletico è un esito che può non soddisfare in pieno: una pratica assidua e meticolosa porta, per esempio, a parametrare il canone dell’arte al proprio essere donando la possibilità ad alcuni esegeti, dotati di particolare sensibilità, a declinare la forma in interpretazioni assai raffinate: l’arte cela in sé un richiamo a trascenderla. Un richiamo magnetico che sa essere molto persuasivo. La ripetizione costante della forma e dell’approccio alla pratica sono un eccellente viatico per la comprensione delle leggi che sostengono un sistema, in questo caso un’arte marziale, ma possono rilevarsi anche una gabbia (ahimè comoda per alcuni) in cui, mancando interpretazione, non ci si riconosce. L’aderire rigidamente a un codice si trasforma in una sorta di incantesimo all’interno del quale l’essenza dell’informazione in esso contenuta si offusca talmente tanto da non poter essere riconosciuta. Proprio come una pellicola olografica che, pur contenendo in maniera non-locale tutta l’informazione, se ridotta a brandelli vede sbiadirsi l’essenza. Se l’attenzione è focalizzata principalmente sul rispetto formale il cuore dell’arte non viene trasmesso e né il praticante, né un osservatore esterno, possono riconoscere nel movimento quello spirito che è alla base dell’arte stessa. Va quindi attraversata la soglia che porta alla sublimazione del gesto e dell’avvicinamento a esso, trasportando il praticante su un piano esperienziale molto più vasto e articolato in quanto costituito dal sentire che si sostituisce al comprendere. [...]

Vorrei soffermarmi sul passaggio dal 無極 wújí al saluto rituale, o viceversa, in quanto in esso, a mio avviso, si può riconoscere appieno la struttura olografica di questa particolare forma espressiva d’arte. Troppo spesso il momento del saluto, iniziale o finale che sia, viene vissuto come un passaggio di scarso interesse quando invece contiene in sé ogni informazione e ogni espressione veramente necessarie a vivere con pienezza l’essenza del 太極拳 tàijí quán. Nell’istante in cui, dalla vacuità, nascono l’idea e l’intenzione di esplorare le forme, codificate o meno, dell’arte, vi è la possibilità di vivere appieno lo sprigionarsi della matrice vitale: in quel preciso istante e in quel preciso luogo tutto può accadere, posso assumere qualsiasi forma, qualsiasi atteggiamento, estraniandomi anche dalla sequenza temporale. Ciò può avvenire solo se il praticante ha raggiunto un pieno stato di vacuità in cui sente il riverbero tra il proprio sé e l’arte. Si può, quindi, dare vita a quell’energia che ricrea il mio ologramma: l’intenzione è un atto creativo, quel fascio luminoso che, mettendo a disposizione il corpo come pellicola olografica su cui si è fatto imprimere in anni di costante allenamento le forme d’onda (le varie tecniche e loro interpretazioni), che condensa in uno spazio e in un tempo, tanto definito quanto sospeso, un’immagine olografica delle leggi universali. Al termine, dopo aver esplorato svariate forme espressive, si ritorna al centro, al sé; proprio al suo interno si riconosce di poter vivere ed esprimere il diagramma daoista in cui esiste solo un’unità tra le infinite forme e il loro intero, in cui si fa esperienza diretta della inutilità della ricerca dell’equilibrio che porterebbe ad una cristallizzazione della realtà e, quindi, alla fragilità estrema della nostra esistenza. A riconoscere che, pur essendovi una infinità di forme, la loro separazione è solo apparente: come nella pratica della forma lunga in cui non ci si deve soffermare sulla divisione delle tecniche ma nel riconoscere che esse sono parte di un unicum e solo nell’unicum riconosco tutte le singole parti. Nel lavoro a coppia tutto ciò diventa ancor più affascinante laddove si possono fondere e riconoscere sistemi olografici solo apparentemente diversi.

Possiamo allora ritornare alle due caratteristiche peculiari dell’olografia e riconoscerle appieno nel 太極拳 tàijí quán: per quanto proviamo a suddividere la forma in gesti separati ovvero disgiungere le varie parti che compongono lo stesso gesto, se abbiamo compreso l’essenza, la sua informazione non si perde, non si annacqua ma resta vivida. All’interno di un singolo gesto possiamo riconoscere molteplici interpretazioni. Oppure ancora: più praticanti possono esprimere la stessa forma. Solo la costante pratica di accoglimento in assenza di giudizio può permettere di vivere appieno l’esperienza sopra descritta.

Per quanto mi riguarda ciò non è autobiografico: la strada è molto lunga. Avere colto un’idea non significa essere in grado di farla pienamente propria, di viverla e ancor meno poterla insegnare. La mia contraddizione emerge proprio nel momento in cui affermo di aver colto: ho cristallizzato un giudizio...

Maestro Marco Panfilo

Inizia a studiare 太極拳 tàijí quán nel settembre del 1992 con la mia futura moglie presso la palestra Athena di Venezia.
Insegna a Venezia 太極拳 tàijí quán stile yáng del maestro 張祖堯 zhāng zǔyáo (vedi l'articolo "Il maestro Chang Dsu Yao") trasmessoli dal maestro Franco Mescola (vedi l'articolo Non c'è luce senza ombra, il Maestro Franco Mescola

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一口氣。一套太極拳。一個世界。
Yī kǒuqì. Yī tào tàijí quán. Yīgè shìjiè.

—— 龍小五

Un solo respiro. Una sola sequenza di Taiji. Un solo mondo.
—— 龍小五

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